Introduzione a Pascoli e Il Giorno dei Morti


Giovanni Pascoli (1855-1912) è il poeta che ha segnato il passaggio dall'Ottocento al Novecento. Nasce nel 1855, a San Mauro di Romagna, quarto di dieci figli. Quando il padre Ruggero viene ucciso, la disgrazia imprime un segno incancellabile nell'animo del poeta, che ne sarà condizionato per tutta la vita. Spesso nelle sue poesie torna il tema della morte del padre e del "nido" distrutto dalla violenza degli uomini. Anche altri lutti colpiscono la famiglia Pascoli: muore una sorella, la madre e due fratelli.
Giovanni, tra mille difficoltà, si iscrive alla facoltà di lettere dell'Università di Bologna. Segue con interesse le lezioni di Carducci e si avvicina agli interessi del Socialismo.
Nel 1891 pubblica la sua prima raccolta di poesie, "Myricae", a cui seguono i "Poemetti", "Canti di Castelvecchio", "Poemi Conviviali".
"Myricae" è la prima e la più amata raccolta pascoliana. Il titolo deriva da un verso della quarta Ecloga di Virgilio: "iuvant arbusta humilesque myricae", "piacciono gli alberi e le umili tamerici".
Con questo titolo Pascoli vuole alludere al tono volutamente basso della sua poesia che paragona alle tamerici, le umili pianticelle che si elevano poco da terra; ma la tematica della raccolta può intendersi anche come "un diario minuto e liberissimo di una giornata trascorsa in campagna a contatto con gli eventi agresti, le voci dei campi, il trascolare delle ore". Il poeta canta le piccole cose, il mondo semplice della natura, cui si intreccia il tema delle vicende familiari, che il poeta rievoca con tristezza e sgomento. Nei lutti che hanno colpito la famiglia vede il segno di una società feroce e disumana alla quale contrappone la Natura, madre dolcissima e confortatrice. Quello della Natura è sicuramente uno dei temi dominanti della produzione di Giovanni Pascoli, le cui liriche sono popolate di fiori, uccelli, alberi di tutti i tipi, cui spesso il poeta indica con precisione anche il nome specifico. Egli accusa di genericità la poesia italiana, nella quale la campagna è stata sempre descritta in modo convenzionale, per cui gli uccelli sono solo rondini e usignoli, i fiori rose e viole, gli alberi ulivi e cipressi.

Fra tutti gli elementi della natura, Pascoli cita con particolare frequenza uccelli e fiori del campo. Ai primi si collega l'immagine del "nido famigliare" e simboleggiano l'evasione dalla realtà dominata dal male verso una condizione di felicità che sarebbe duratura se l'uomo non intervenisse con violenza a distruggerla, spezzando il volo degli uccelli. Ma agli uccelli Pascoli attribuisce anche una funzione oracolare che riprende tanto dalle magiche credenze del mondo contandino quanto dalla cultura classica. Nelle tradizioni contadine è affidata agli uccelli gran parte delle previsioni sulla vita e sulla morte: il grido degli uccelli notturni viene considerato segno di malaugurio, si contano gli anni di vita sul canto del cuculo e così via. Nel mondo antico esistevano dei sacerdoti, detti àuguri, che avevano il compito di trarre profezie dal volo degli uccelli. Per Pascoli gli uccelli sono intermediari fra l'uomo e il mistero che lo circonda: il loro verso, che il poeta riproduce per mezzo delle onomatopee, è la voce di una realtà segreta e ignota che non può essere penetrata con gli strumenti della ragione.
Anche i fiori hanno una valenza simbolica: in Pascoli sono spesso legati al tema della morte, o, per la forma circolare della corolla, diventano simbolo di una vita chiusa, senza rapporti con il mondo esterno dal quale possono giungere solo violenza e morte.
La Natura, se per un verso appare come una presenza confortatrice di fronte al male della realtà e della storia, per l'altro rimanda immagini angoscianti di morte e di caos. Una tale visione del mondo può essere solo in parte ricondotta ai drammi familiari del poeta; in realtà possiamo cogliere in essa il riflesso del disagio dell'intellettuale decadente che si sente emarginato dalla società.

In "Novembre", per esempio, il poeta più che celebrare la breve rinascita della bella stagione pone l'accento sull'illusività delle apparenze, sulla natura ingannevole che cela dietro immagini illusorie di vita la realtà della morte.

Gèmmea l'aria, (1) il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...(2)

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno, (3)
e vuoto il cielo, (4) e cavo al piè sonante
sembra il terreno. (5)

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. è l'estate,
fredda, dei morti. (6)

(1) Limpida come una gemma
(2) Hai l'impressione di essere in primavera e allora ti guardi intorno a ricercare gli albicocchi in fiore e ti sembra di avvertire il profumo del biancospino
(3) Tracciano un disegno nero sullo sfondo del cielo limpido
(4) Senza voli di uccelli
(5) Il terreno risuona duro e asciutto sotto i piedi, come se fosse vuoto
(6) è l'estate di San Martino, che cade nei primi giorni di novembre poco dopo la ricorrenza dei morti.

In "Lavandare" Pascoli delinea un quadro autunnale: lo spunto del componimento è forse scaturito da una passeggiata in campagna durante la quale il poeta ha sentito un canto di lavandaie al lavoro: un canto triste, che allude alla solitudine. La malinconica condizione della donna abbandonata sembra trovare corrispondenza nello spoglio paesaggio autunnale e soprattutto nell'immagine dell'aratro dimenticato in mezzo al campo:

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l'aratro in mezzo alla maggese.

In "Il lampo" con pochi rapidi tocchi il poeta delinea un paesaggio improvvisamente illuminato dalla luce livida di un lampo.

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

Il poeta ci offre così una visione stravolta e allucinata della natura, simbolo del caos del mondo che sfugge a ogni intervento ordinatore. Pare che con questi versi egli abbia voluto riferirsi alla morte del padre.
Il verso iniziale, isolato dallo spazio bianco, e introdotto dalla congiunzione "e" che sembra legarlo a qualcosa di non detto o ad una precedente meditazione del poeta, ha la solennità di una sentenza biblica che enuncia una tragica verità. La luce improvvisa del lampo ha una forza rivelatrice: mette a nudo la vera essenza dell'universo. Il mondo appare tragicamente lacerato e deforme. Se all'inizio cielo e terra sono ancora uniti, a partire dal secondo verso li vediamo scissi da una frattura insanabile. Entrambi sono tormentati da una sofferenza disperata. La terra è descritta con espressioni che fanno pensare all'agonia di un essere vivente: "ansante, livida, in sussulto"; il cielo è ridotto a puro caos. I tre aggettivi "ingombro, tragico, disfatto" comunicano l'idea di catastrofe che ha fatto ripiombare il mondo nel caos originario.

Allo sconvolgimento degli elementi naturali si contrappone la casa, simbolo dell'opera dell'uomo, del suo tentativo di imprimere nella natura un segno della sua presenza. Ma essa non è un rifugio sicuro e protettivo, appare fragile e precaria nel tacito tumulto, nel rimescolamento dell'universo che è tanto più terribile perché avviene in un silenzio allucinato, il silenzio del lampo non ancora seguito dal tuono. Il bianco della casa, che si contrappone al nero della notte, è un colore altrettanto lugubre, segno della morte, e allude alla fragilità dell'uomo. I due verbi "apparì sparì" che si succedono senza essere legati da una congiunzione, alludono alla precarietà dell'uomo, la cui permanenza sulla terra è brevissima e può essere stroncata in un attimo.

Nella lirica successiva "Il tuono", composta a sei anni di distanza, il poeta riprende il tema della Natura sconvolta ma contrappone però la figura rassicurante della madre e della culla:

E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.


Il 2 Novembre, nel giorno dedicato ai defunti, il Poeta ripensa ai suoi morti e li rivede nel cimitero, fra le intemperie, stretti fra loro a lamentare l'abbandono in cui sono lasciati.
Questo pensiero gli suscita il senso di un'antica felicità perduta e l'idea della casa domestica come "nido" caldo e consolante; il cimitero, anzi, diventa una nuova "casa" dove i morti si congiungono ai vivi per ricostruire l'unità famigliare.

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!) ,
vedo nel cuore, vedo un camposanto (1)
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido (2) si scaglia (3)
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l'infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,(4)
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l'inonda e muove la tempesta; (5)

O camposanto che sì crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
oggi ti vedo (6) tutto sempiterni (7)

e crisantemi. A ogni croce roggia (8)
pende come abbacciata una ghirlanda
donde gocciano lagrime di pioggia.

Sibila tra la festa lagrimosa (9)
una folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio ogni morto, di memorie, posa.

Non i miei morti. (10) Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,

stretti così come altre sere al foco
(urtava, come un povero, alla porta
il tramontano (11) con brontolìo roco),

piangono. La pupilla umida e pia (12)
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma un'altra lagrima per via.

Piangono, e quando un grido (13) ch'esce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno!...
cupo rompe (14) un singulto lor dal petto.

Levino bianche mani a bianchi volti,
non altri, (15) udendo il pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche figlio de' figli, ancor non nato.
Nessuno! (16) I morti miei gemono: nulla!

- O miei fratelli! - dice Margherita,
la pia fanciulla che sotterra, al verno,
si risvegliò dal sogno della vita.

- O miei fratelli, che bevete ancora
la luce, (17) a cui mi mancano in eterno
gli occhi, assetati dalla dolce aurora;

O miei fratelli! Nella notte oscura,
quando il silenzio v'opprimeva, e vana (18)
l'ombra formicolava di paura; (19)

io veniva leggiera al vostro letto;
Dormite! Vi dicea soave e piana:
voi dormivate con le braccia al petto.

E ora, io tremo nella bara sola;
il dolce sonno ora perdei per sempre (20)
io, senza un bacio, senza una parola.

E voi, fratelli, o miei minori, nulla!...
Voi che cresceste, mentre qui, per sempre,
io son rimasta timida fanciulla.

Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella (21) :
ditemi: Margherita, dormi in pace.

Ch'io l'oda il suono della vostra voce
ora che più romba la procella:
io dormirò con le mie braccia in croce.

Nessuno! - Dice; e si rinnova il pianto,
e scroscia l'acqua: un impeto di vento
squassa il cipresso e corre (22) il camposanto.

- O figli - geme il padre in mezzo al nero
fischiar dell'acqua - O figli che non sento
più da tanti anni! Un altro cimitero

forse v'accolse e forse voi chiamate
la vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto le nere sibilanti acquate.

E voi le braccia dall'asil lontano
a me tendete, siccome io le tendo,
figli, a voi, disperatamente invano.

O figli, figli! Vi vedessi io mai!
Io vorrei dirvi che in quel sol istante (23)
per un'intera eternità v'amai.

In quel minuto avanti che morissi,
portai la mano al capo sanguinante,
e tutti, o figli miei, vi benedissi.

Io gettai un grido in quel minuto, e poi
mi pianse il cuore: come pianse e pianse!
e quel grido e quel pianto era per voi.

Oh! Le parole mute ed infinite
che dissi! Con qual mai strappo si franse
la vita viva delle nostre vite.

Serba la madre ai poveri miei figli:
non manchi loro il pane mai, né il tetto,
né chi li aiuti, né chi li consigli.

Un padre, O Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, m'ha tolta.

Perdona all'uomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, (24) buon Dio...
e se ha figlioli, in nome lor perdona.

Che sia felice; fagli le vie piane;
dàgli oro e nome (25) ; dàgli anche l'oblio; (26)
tutto: ma i figli miei mangino il pane.

Così dissi in quel lampo senza fine; (27)
vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla più grandicella alle piccine.

Spariva (28) a gli occhi il mondo fatto vano.
In tutto il mondo più non era alcuno.
Udii voi soli singhiozzar lontano.

Dice; e più triste si rinnova il pianto;
più stridula, più gelida, più scura
scroscia la pioggia dentro il camposanto.

- No, babbo, vive, vivono - (29) Chi parla?
Voce velata dalla sepoltura,
voce nuova, (30) eppur nota ad ascoltarla,

O mio Luigi, o anima compagna!
Come ti vedo abbrividire al vento
che ti percuote, all'acqua che ti bagna!

Come mutato! Sembra che tu sia
un bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che chieda, a notte, al canto della via. (31)

- Vivono, vive. Non udite in questa
notte una voce querula, argentina,
portata sino a noi dalla tempesta?

è la sorella (32) che morì lontano,
che in questa notte, povera bambina,
chiama chiama dal poggio (33) di Sogliano.

Chiama. Oh! Poterle carezzare i biondi
riccioli qui, tra noi: fuori del nero
chiostro, de' sotterranei profondi! (34)

Un'altra voce tu, fratello, (35) ascolta:
dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero; (36)
in cui, babbo, moristi un'altra volta. (37)

Parlano i morti. Non è spento il cuore
né chiusi gli occhi a chi morì cercando,
a chi non pianse tutto il suo dolore. (38)

E or per quanto stridula di vento (39)
ombra ne dividesse, a quando a quando
udrei, come da vivo, il tuo lamento,

O mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che curai, che difesi, umile e buono,
e morii senza che ti rivedessi! (40)

Avessi tu provato di quell'ora
ultima il freddo, e or quest'abbandono,
gemendo a noi ti volgeresti ancora. -

- Ma se vivete, perchè, morti cuori,
solo è la nostra tomba illacrimata,
solo la nostra croce è senza fiori? -

Così singhiozza Giacomo: poi geme:
- Quando sola restò la nidiata,
Iddio lo sa, come vi crebbi (41) insieme:

se con pia legge l'umili vivande
tra voi divisi, e destinai de' pani
il più piccolo a me ch'ero il più grande;

se ribevvi (42) le lagrime ribelli
per non far voi pensosi del domani,
se il pianto piansi in me di sei fratelli;

se al sibilar di questi truci venti,
al rombar di quest'acque, io suscitava
la buona fiamma d'eriche e sarmenti;

e io, quando vedea rosso (43) ogni viso,
e più rossi i più piccoli, tremava
sì, del mio freddo che desìa, nel fango;

per questi santi, o fratel mio, che vivi;
di cui morendo, io ti dicea... ma era
grossa la lingua (44) e forse non udivi.


Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto

d'occhi lasciati dalla morte attenti, (45)
pianto di cuori cui la sepoltura
lasciò, ma solo di dolor, viventi.

L'odo (46) : ora scorre libero: nessuno
può risvegliarsi, tanto è notte, il vento
è così forte, il cielo è così bruno.

Nessuno udrà. La povera famiglia
può piangere. Nessuno, al suo lamento,
può dire: altro è mio figlio! Altra è mia figlia!

Aspettano. Oh! Che notte di tempesta
piena d'un tremulo ululo ferino!
Non s'ode per le vie suono di pesta. (47)

Uomini e fiere, in casolari e tane,
tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino
socchiude l'uscio del tugurio al cane.

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dall'assidua romba. (48)
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

I figli morti stanno avvinti al padre
invedicato. Siede in una tomba
(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,
e poi furtiva esplora l'ombra. Culla
due bimbi morti (49) sopra i suoi ginocchi.

Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per sé nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi;

e dice: - Forse non verranno. Ebbene,
pietà! le tue due figlie, o sconsolato,
dicono, ora, in ginocchio, un po' di bene. (50)

Forse un corredo cuciono, che preme:
per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno agucchiato sospirando insieme. (51)

E solo a notte i poveri occhi smorti
hanno levato, a un gemer di campane;
hanno pensato, invidiando, (52) ai morti.

Ora, in ginocchio, pregano Maria
al suon delle campane, alte, lontane,
per chi qui giunse, (53) e per chi resta in via

là; per chi vaga in mezzo alla tempesta, (54)
per chi cammina, cammina, cammina,
e non ha pietra ove posar la testa. (55)

Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che non mai declina,
orate requie, O figli morti, ai vivi!
O Madre! Il cielo si riversa in pianto
oscuramente sopra il camposanto.


Note:

1) Il camposanto è quello tra San Mauro e Savignano, dove furono sepolti i congiunti del Pascoli: la sorella Ida, morta nel 1862, il padre ucciso nel 1867, la sorella Margherita e la madre (1868), i due fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). Un'altra sorella di 5 anni, Carolina, era morta ne 1863 a Sogliano sul Rubicone e fu sepolta in quel cimitero.

2) Fumido = tra la nebbia.

3) Si scaglia = è scosso con violenza, opponendosi al vento.

4) Il cimitero è "casa unica di mia gente e mia" perchè "tutta una famiglia è lì accolta, ineffabilmente triste e io vivo con loro".

5) Nel cimitero i morti sembrano abbandonati a tutte le intemperie.

6) è il Giorno dei Morti, e il cimitero è colmo di fiori.

7) I sempiterni sono dei fiori "semprevivi", che mantengono il loro colore anche quando sono secchi.

8) Roggia = rossa di ruggine.

9) Il cimitero fiorito sembra una festa, per la presenza dei fiori, ma quei fiori testimoniano un ricordo doloroso. Inoltre, stillano gocce di pioggia che sembrano lacrime.

10) Nel Giorno dei Morti, i morti del Pascoli sono abbandonati.

11) Il Tramontano = il vento di tramontana.

12) "Pupilla" sta per "Gli occhi di ciascuno dei famigliari morti".

13) Un grido di disperazione, perchè nessuno li ricorda.

14) Rompe = erompe.

15) "Se mai qualcuno dei viventi, ascoltando quel pianto, li ricordi".

16) Sono stati completamente dimenticati.

17) Che siete ancora in vita e potete vedere la luce del sole.
A cui = per vedere la quale.

18) Vana = vuota, ingannevole.

19) Il buio della notte suscitava una folla di immagini indeterminate e paurose.

20) Il sonno fa parte della vita e quindi è negato ai morti.

21) Dopo la morte del marito, la madre del Poeta era caduta in un grave stato di prostrazione e Margherita ne aveva fatto le veci presso i fratelli.
"Vergine sorella" è reminiscenza dantesca.

22) Corre = Percorre.

23) L'istante della morte.
24) L'assassino del padre di Pascoli ignora lo strazio di morire lasciando la famiglia nel dolore e nella miseria.

25) Nome = Fama.

26) Del rimorso.

27) L'istante prima che morisse in cui amò i figli "per un'intera eternità".

28) Spegnendosi la vita, tutto spariva ai suoi occhi.

29) Non tutti i figli sono morti, ma il "vive" può sottindere anche un'implicita accusa all'assassino, vivo e non perseguitato.

30) "Nuova" = "Mutata".

31) Implori l'elemosina all'angolo della via.
32) Carolina.

33) Il cimitero era situato sul pendio di una collina.

34) L'oscurità della tomba.

35) Luigi si rivolge a Giacomo.

36) Il nipote del Poeta, figlio del fratello Giacomo, morto a 12 anni, nel 1887.

37) Al bimbo era stato posto il nome del nonno e la sua morte fu sentita dal Poeta come una seconda morte del padre.

38) "Non hanno essi della morte le requie, non si spense d'essi con la vita il dolore" perchè cercano giustizia, in quanto, "Ti uccise tutti, nel mio padre, la malvagità degli uomini".

39) Anche se ci divide l'ombra della morte potrei udire la tua voce.

40) Quando la malattia di Luigi fu irrimediabile, "Giacomo dovette allontanare di casa Giovannino, altrimenti non era possibile staccarlo dal capezzale".
41) Dopo la morte del padre, la responsabilità della famiglia restò al fratello Giacomo.

42) Respinsi.

43) Arrossato dal vento sferzante.

44) Prima di entrare in agonia, Giacomo voleva parlare a Giovanni, ma non riusciva.

45) Consapevoli delle vicende umane.

46) Il pianto.

47) Suono di passi.

48) L'incessante tumulto della tempesta.
49) Carolina e Ida.

50) Pregano per i defunti.

51) Ida e Maria contribuirono al bilancio famigliare con lavori di ricamo e cucito.

52) Invidiano la pace della morte.

53) In camposanto.

54) I dolori della vita.

55) Non ha luogo dove riposare.


Alba festiva


Il significato del titolo:

Il titolo della Raccolta (che è il nome latino delle tamerici, piccoli arbusti comuni sulle spiagge) è ripreso da un verso di Virgilio (Egloga IV, 2: "Arbusta iuvant, humilesque myricae") posto come epigrafe all'inizio della Raccolta. Il Poeta utilizza il termine "Myricae" per evidenziare un lato umile della sua vena poetica, ispirata alle "piccole cose" e non ai grandi temi pomposi e vanesi
("Le myricae sono basse, le più terra terra, povere pianticelle. Ma Virgilio le amava e ne faceva l'immagine dei suoi primi canti").

*****

"Alba festiva"

Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?

è un inno senza fine,
or d'oro, ora d'argento,
nell'ombra mattutine.

Con un dondolìo lento
implori, o voce d'oro,
nel cielo sonnolento.

Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla,
voce argentina -Adoro,

adoro -Dilla, dilla,
la nota d'ora - l'onda
pende dal ciel, tranquilla.

Ma voce più profonda
sotto l'amor rimbomba,
par che al desìo risponda:

la voce della tomba.


Speranze e memorie


Paranzelle (1) in alto mare
bianche, bianche,
io vedea palpitare (2)
come stanche:
o speranze, ale di sogni
per il mare!

Volgo gli occhi, e credo in cielo
rivedere
paranzelle sotto un velo,
nere nere:
o memorie, ombre di sogni
per il cielo!


1) Le paranzelle sono piccole barche a vela.
2) Apparire, scomparire.

Scalpitio


Si sente un galoppo lontano
(è la...?), (1)
che viene, che corre nel piano
con tremula rapidità.

Un piano deserto, infinito;
tutto ampio, tutt'arido, eguale:
qualche ombra d'uccello smarrito,
che scivola simile a strale:

non altro. Essi fuggono via
da qualche remoto sfacelo; (2)
ma quale, ma dove egli sia,
non sa né terra né il cielo.

Si sente un galoppo lontano
più forte,
che viene, che corre nel piano:
la Morte! la Morte! la Morte!


1) è sottointesa la Morte.
2) Remoto sfacelo = la distruzione misteriosa della morte.

Il morticino


Non è Pasqua d'ovo?

Per oggi contai (1)
di darteli, i piedi. (2)
è Pasqua: non sai?
è Pasqua: non vedi
il cercine  (3) novo?

Andiamoci, a mimmi,(4)
lontano lontano...
Din don...Oh! Ma dimmi:
non vedi c'ho in mano
il cercine novo,

le scarpe d'avvio?
Sei morto; non vedi,
mio piccolo cieco!
Ma mettile ai piedi,
ma portale teco
ma diglielo a Dio,
che mamma ha filato
sei notti e sei dì,
sudato, vegliato,
per farti, oh! così!
le scarpe d'avvio!


1) Contai = mi ero proposta.
2) Il cercine è una sorta di berretto infantile.
3) è un espressione toscana/romagnola, per indicare il momento in cui si mettevano ai bimbi le scarpette. Si aspettava il giorno di Pasqua, se era possibile, quando le campane suonavano.
4) A mimmi = a passeggio.


Il rosicchiolo


(il rosicchiolo è un tozzo di pane secco)

Per te l'ho serbato, soltanto
per te, povero angiolo; ed eccolo
o pianto!
lo vedi? un rosicchiolo secco.

Moriva (1) sul letto di strame;
tu, bimbo, dormivi sicuro.
Che pianto! che fame!
ma c'era un rosicchiolo duro.

Ma ella guardava lunghe ore,
guardava il suo bimbo, e morì,
di pianto, di fame, d'amore;
e...guarda! il rosicchiolo è qui.


1) La madre.

Allora


Allora... in un tempo assai lunge
felice fui molto: non ora:
ma quanta dolcezza mi giunge
da tanta dolcezza d'allora!

Quell'anno! per anni che poi
fuggirono, che fuggiranno,
non puoi, mio pensiero, non puoi,
portare con te, che quell'anno!

Un giorno fu quello, ch'è senza
compagno,(1) ch'è senza ritorno;
la vita fu vana parvenza (2)
sì prima sì dopo quel giorno!

Un punto!...così passeggero,
che in vero passò non raggiunto,
ma bello così, che molto ero
felice, felice, quel punto!


1) Non ha uguali per tanta gioia.
2) Fu una vana illusione.